
A scuola si scuola: i tempi e i modi della scuola sembrano essere tutti impliciti, ma è come se la consuetudine avesse reso esplicito ed evidente per tutti quello che a scuola si fa e si deve fare. L’essenziale non è detto, ne sembra essere oggetto di discussione: il rapporto tra le persone, la misura della qualità della relazione tra docente e studente, innanzitutto, è camuffata dal rapporto individuale che è dato dall’interrogazione, dal compito in classe, dal voto finale, dall’essere promosso o bocciato.
La potenziale ricchezza della relazione, invece, è scandita da tempi lunghi suddivisi da attimi brevi e veloci: un’ora, due ore, tre ore settimanali a loro volta suddivisi per il numero di studenti per ciascuna classe; frattali di tempo sparsi per arrivare a rendere significativo quell’attimo in cui finalmente gli occhi si incrociano a scrutarsi, a conoscersi, al di là della funzione di docente-allievo.
L’incontro può anche non avvenire mai: il docente decide che un ragazzo può essere designato come colui che può relativamente sorprendere con un buon voto (o un cattivo voto), il ragazzo si convince che il docente non vale più di quello di matematica, è uno stronzo, insensibile e sadico o uno a cui non importa niente di te.
Il distacco emotivo, fisico e psichico, è il sentimento che sembra essere più diffuso all’interno della scuola.
La convivenza di anni tra un piccolo gruppo di persone può non risolversi in niente di particolarmente interessante, entra nella quotidianità di ruoli, funzioni e riti e non “toccarsi” emotivamente. Tutto questo accade nel rapporto tra singolo docente e singolo allievo e accade nel rapporto tra gli allievi.
La scuola non ha assunto, consapevolmente, il compito di proporre e favorire la crescita della responsabilità verso se stessi e l’altro, se non in termini autoreferenziali per il tempo in cui si sta in classe con le regole, per lo più implicite, che strutturano la vita di quella classe in quell’ora con quel determinato docente.
La personalità promossa dalla scuola è una personalità multipla, schizoide, separata dalla vita “normale” e questo vale tanto per lo studente che per il docente. Il giudizio espresso dal voto permette di operare una discrasia tra la funzione di valorizzazione e crescita emotiva, relazionale e mentale ed i risultati che la disciplina pretende.
L’essenziale rimane nascosto, l’incontro non avviene, le emozioni in campo sembrano essere bloccate e reificate, la passione non affiora, il tentativo disperato e disperante di tenere sotto controllo le emozioni fallisce ripetutamente, ma nel contempo, produce un sottofondo emotivo controllato e/o esplosivo che reifica, stabilizza e mummifica.
Tutto questo, con il passare del tempo, sembra essersi ancor più cristallizzato: i mutamenti sociali hanno prodotto cambiamenti negli atteggiamenti, nelle abitudini di vita, nelle modalità di ragionamento tali che la rigidità della scuola risulta sempre più inappropriata alla funzione educativa.
Tempo fa con l’Università di Roma ed il prof. Renzo Carli, abbiamo cercato di rendere centrale nel discorso educativo la gruppalità rappresentata dalla risorsa “gruppo classe”; nella stessa direzione si muove la proposta educativa del programma UNPLUGGED. Il gruppo classe e l’intervento nel gruppo richiede un approccio non più basato sull’individualità, quanto piuttosto sulla gruppalità, sul creare un clima emotivo nella classe di disponibilità reciproca, di possibilità di contatto, di emotività positiva, attraverso l’utilizzo del molteplice materiale disciplinare offerto. Per ottenere questi risultati, bisogna maneggiare bene metodologie didattiche legate al cooperative learning, avere ben presente quali strumenti didattici riescono a permettere allo studente di padroneggiare l’argomento, non di ripeterlo, ma di comprenderlo. Da anni proviamo a proporre nelle scuole un approccio basato sui presupposti indicati dall’OMS sulla promozione di salute: interventi educativi protratti nel tempo, affidati ai docenti, basati sulle life skills. Questo approccio continua a vivere sull’ambiguità: è la sanità che propone un approccio squisitamente didattico, usurpando il ruolo che dovrebbe essere della scuola stessa e pagando un prezzo altissimo. La scuola ci avverte come estranei, psicologi, medici, assistenti sociali che non sono interni alla scuola, che sembrano esercitare una funzione critica, esattamente come accade a me in questo momento per le orecchie dei docenti. L’effetto che si ottiene è di essere considerati i promotori di “progetti” annuali, al limite molto belli e coinvolgenti, che funzionano, ma sempre avvertiti come esterni alla scuola e che la scuola stessa non fa propri.
All’ennesimo corso su UNPLUGGED una docente ci disse: “è la quarta volta che faccio corsi basati sul cooperative learning, l’approccio è sempre stato basato sulla lezione frontale e sulla discussione sui metodi, questa è la prima volta che ho realmente compreso cosa vuol dire e come si vive un approccio didattico basato sul cooperative learning”.
Una delle difficoltà continuamente reiterate negli incontri con i docenti è che UNPLUGGED assorbe tempo. Mi sembra che dietro questa affermazione vi sia una fotografia reale delle difficoltà che incontrano ogni giorno i docenti nell’approccio con gli studenti: la scansione del tempo è inesorabile eppure continua e sempre uguale; in questa routine che coinvolge tutti, deve rientrare il tempo degli adempimenti (registro, compiti in classe, interrogazione, spiegazione, consiglio, ossessione del programma, ecc.) e poi bisogna utilizzare bene il tempo che rimane ed è sempre poco, ristretto: è difficilissimo rendere pienamente soddisfacente il tempo. UNPLUGGED è uno di quegli strumenti didattici che richiedono affiliazione, vale a dire che, al di là del programma e dell’intervento della ASL, il modello proposto è a disposizione, può sostituirsi a quello “classico” del docente in classe, e può essere pienamente utilizzato per le stesse finalità didattiche, lavorando innanzitutto sul clima emotivo e positivo della classe. Se questo accade siamo già a buon punto. Se questo accade vuol anche dire che nel rapporto tra docente e gruppo classe è avvenuto qualcosa di significativo ed importante.
Se questo accade c’è un contagio emotivo che rischia di allargarsi ad altri docenti e alle altre ore della classe nell’orario scolastico. Ogni contagio può avere due destini: o essere considerata cosa buona e giusta, per cui dilaga e si afferma un nuovo stile educativo basato su metodologie didattiche di coinvolgimento attivo degli studenti, o viene considerato una minaccia e quindi combattuto e abbattuto.
L’altro “implicito” della scuola è che esiste un gruppo classe e una classe considerata “buona” o “cattiva”, con elementi problematici e problematiche comuni; dall’altro lato anche i docenti sono un gruppo e ciascuno di loro combatte la propria personale battaglia con la classe e, soprattutto, con i colleghi. Allo stesso modo di quello che succede nella classe, anche tra i docenti ci sono disturbi e difficoltà, eccellenze e competitività; la classe è fortemente influenzata dalla particolare storia che si viene a determinare ad ogni inizio di anno che riguarda la composizione del consiglio di classe, quello che è accaduto o non accaduto l’anno precedente, le idiosincrasie tra docenti, i rapporti di ciascun docente con il Dirigente scolastico, quello che accade nel collegio docenti. La scuola è un organismo vivo, fecondo, cangiante, complesso, difficilissimo da governare, ancora più difficile da trasformare, soprattutto quando non sembra esserci alcun movimento di sostegno alla trasformazione.
Credo che tutti siamo, in fin dei conti, convinti che la scuola abbia bisogno di essere trasformata e debba ritrovare la propria visione; tutti siamo convinti che ci sia bisogno di operare un ragionamento rispetto alla finalità educativa, se promuovere eccellenze e competitività, creando percorsi differenziati (come di fatto è) oppure lavorare sulle regole della convivenza, promuovendo la partecipazione attiva, il confronto (come comunemente viene affermato, ma non si fa).
La lotta tra queste due istanze, la necessità di un cambiamento e la tendenza ad un ritorno ad un “mitico” passato, resta reificata e sacrificata sull’altare della crisi economica. Quello che accade da molti anni a questa parte è che tutto sembra cambiare, sulla carta, ma niente è realmente cambiato: che tutte le principali novità che ogni anno attraversano la scuola sembrano aver prodotto sfracelli, ma ogni anno, le circolari vengono macinate dalle procedure e niente sembra effettivamente cambiare. Ma alcune cose, inevitabilmente cambiano: si alza l’età media dei docenti, aumenta la stanchezza, aumenta il numero di docenti che ha deciso che, in qualche modo, non ce la fa più ad impegnare il proprio tempo a scuola, aumenta il numero di alunni per classe, aumenta il distacco emotivo da queste nuove generazioni di giovani sempre più interessati ad altro, con strumenti nuovi, con informazioni immediatamente presenti, con capacità e potenzialità non ancora comprese.
E la scuola riesce ancora, ogni anno, a far sedere su vecchi banchi scomodi questi corpi in ebollizione, che un tempo guardavano fuori della finestra per immaginare di essere altrove e che adesso guardano sullo schermo del proprio telefonino per essere altrove, sempre altrove, mai presenti e interessati a quello che succede tra 25 giovani e una anziana signora che rompe con le sue pretese.
Ma ancora sostanzialmente ci danno retta, cercano di credere in noi, vorrebbero che fossimo in grado di ascoltarli, di dare indicazioni, di fornire una bussola emotiva che potesse aiutarli a vivere il presente, ad essere dove sono e non altrove, ad utilizzare le potenzialità, ad appassionarsi a qualcosa di diverso che non sia l’oggetto e l’avere.
La scuola è destinata a perdere la sfida con la tecnologia, è una illusione l’utilizzo di nuovi strumenti per coinvolgere gli alunni. La scuola ha tutto davanti ai propri occhi per riuscire ad operare e svolgere egregiamente il proprio lavoro: puntare sulla qualità della relazione tra docente e alunni, promuovere la possibilità di una relazione significativa tra i ragazzi stessi, riuscire a fare in modo che il qui ed ora della scuola sia interessante e capace di appassionare.
Le classi sembrano essere semplici categorie sociali (insieme di persone classificate in funzione di una loro particolare caratteristica comune) se non addirittura meri aggregati (insieme di persone che condividono uno spazio fisico nello stesso momento senza essere accomunate da forme specifiche di legami), mentre dovrebbero coagularsi attorno a progettualità comuni per favorire la coesione sociale.
Noi stiamo cercando di sostenere ciascun insegnante in questo compito, proponendo momenti di confronto, attività formative, cercando di offrire ai gruppi di docenti la possibilità di poter discutere e condividere quanto accade in ognuno di loro nella funzione del docente (comunità di pratica). Nel nostro piccolo avevamo coniato un acronimo battagliero e antico – Nuclei di resistenza attiva; in ciascuna scuola; abbiamo sperato, con i docenti, che effettivamente nella scuola succedesse qualcosa di diverso dalla solita circolare che annuncia la certificazione delle competenze o i bisogni educativi speciali. L’attesa porta stanchezza, l’età avanza, il miraggio della pensione offre una speranza di un tempo effettivamente diverso che possa permettere a ciascuno di noi di ri-trovare la passione per la propria vita e per le scoperte. Il rischio è che possa essere anche questa l’ennesima illusione. Abbiamo bisogno di riportare la nostra attenzione sul possibile che sta accadendo ora nelle nostre classi e nei nostri servizi e cercare di dare un senso a quello che facciamo. I nostri giovani ne hanno un disperato bisogno. Noi ne abbiamo bisogno.
Lucio Maciocia, Direttivo Nazionale SIPS
Emozioni, passioni, desideri, rinunce, sacrifici, si agitano e vivono nell'uomo anche negli stadi avanzati della vita.
Gli anziani sembrano avere la sorgente del loro benessere nella vita affettiva e nella partecipazione sociale e le ricerche considerano la povertà relazionale come uno dei fattori di rischio, tra i più importanti, per la loro salute.
Accogliere, avere consapevolezza, comprendere uno spunto divertente, una situazione comica, una barzelletta, riderne con gusto, ma anche fronteggiare una difficoltà, un problema, sono capacità umane proprie dell'età anziana e nel contempo segnali indiscutibili di benessere.
Gli anziani sono sempre pronti a esperienze nuove, a relazioni rinnovate, a ritrovare affetti e sentimenti; sanno sorridere di fronte alle contraddizioni profonde e alle beghe quotidiane; amano acquisire e ricercano con determinazione una prospettiva più completa della loro esistenza sia nelle esperienze ordinarie e che negli eventi straordinari.
Le generazioni più anziane, come quelle più giovani, sono deboli e fragili. Per questo hanno bisogno di protezione e di affetto al fine di poter sviluppare un senso di fiducia e di confidenza sicura nella completezza propria e altrui. La fiducia e la confidenza sono favorite dall'appartenenza a un gruppo sociale, ad una associazione, ad una organizzazione, e si sperimentano tanto nel contesto della propria famiglia, quanto nella scoperta della propria identità sociale all'interno della comunità.
La migliore tutela della salute nella vita anziana sta, infatti, nel disporre di una guida sociale incoraggiante e nell'alimentare un dialogo interpersonale costruttivo. Nei momenti in cui gli anziani si sentono meno utili, meno validi, quando provano delusione e sconforto, vogliono far capire che se i giovani hanno bisogno di aiuto per crescere, affermarsi, divenire adulti, e quindi raggiungere una propria autonomia, essi hanno necessità di sostegno per comprendere se stessi, per veder riconosciuto il dono della vita che hanno offerto agli altri, per sentire apprezzata dagli altri l'esperienza accumulata nel tempo.
Nell'età anziana l'amicizia tra i pari è, quindi, indispensabile per vivere; altrettanto importanti sono il rapporto e l'affetto che gli anziani possono allacciare e riservare agli adulti, alle generazioni più giovani, particolarmente ai bambini. Entrambe le prospettive permettono agli anziani di imparare a cogliere il divenire e la relatività del proprio stile di vita come l'esigenza di trascendere la propria esistenza mettendo a servizio degli altri quelle competenze autentiche che scoprono aprendosi con coraggio a nuove imprese e azioni sociali (Welfare Society).
Bibliografia.
E. Erikson, Infanzia e società, Armando Armando, Roma, 1966;
H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967;
S. Freud, Vita sessuale, Boringhieri, Torino 1971;
D. Francescato, Ridere è una cosa seria – L'importanza della risata nella vita di tutti i giorni, Mondadori, Milano, 2002;
S. Zamagni, Economia Civile, il Mulino, Bologna, 2004;
S. Bartolini, Manifesto per la felicità – Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere, Donzelli editore, Roma, 2010;
L. Becchetti, Il mercato siamo noi, Mondadori, Milano, 2012.
di Antonio De Angeli. Socio fondatore SIPS