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Numero 41 dicembre 2015

 
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Scuola e stress lavoro-correlato

 









Il 29 ottobre 2015 a Roma, durante la cerimonia di chiusura della campagna europea “Insieme per la prevenzione e la gestione dello stress lavoro-correlato”, promossa dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) e coordinata a livello nazionale dal Focal Point Italia rappresentato dall’INAIL, è stato consegnato alla Direzione Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Basilicata (U.S.R.), nella persona dell’ing. Pasquale Costante, un prestigioso riconoscimento di “buona pratica” per la realizzazione del “Metodo operativo per la valutazione e gestione del rischio stress lavoro correlato nelle scuole, nell’ottica di genere”.
 
La metodologia, avviata nel 2011 e ultimata nel 2014, è stata realizzata da un gruppo di lavoro (G.d.L) interistituzionale, costituito presso l’U.S.R., coordinato dall’ing. Costante e che ha visto la partecipazione dell’INAIL, della Regione, delle ASL, della Consigliera Regionale di Parità, dell’Ordine Regionale degli Psicologi, delle Organizzazioni Sindacali (CGIL, CISL, UIL, SNALS), di un magistrato ed esperti, tra cui la dr.ssa Cinzia Frascheri - Responsabile nazionale Cisl salute e sicurezza sul lavoro – e l’ing. Domenico Mannelli – già dirigente di ricerca INAIL, direttore dei Dipartimenti ISPESL di Basilicata e Calabria.
 
Nel corso della cerimonia, dove sono stati premiati 17 soggetti tra ministeri, enti e società italiane che hanno apportato, a parere dei giudici, contributi eccezionali e innovativi, dimostrando grande impegno e un approccio partecipativo nell’affrontare la problematica dello stress L-C, l’U.S.R. ha ricevuto anche il riconoscimento di “Partner Ufficiale” della campagna europea.
 
I dettagli delle migliori buone pratiche (n.22), già pubblicati sul sito www.utsbasilicata.it e quello dell’INAIL, saranno contenuti in una pubblicazione speciale che verrà ampiamente distribuita in tutta Europa e promossa attraverso il sito dell’Agenzia europea EU-OSHA.
 
La prima versione del metodo scuole USR Basilicata (2011), che riproduceva il lavoro già realizzato dal G.d.L. regionale “SGS” del SiRVeSS e alcune reti di scuole della provincia di Verona e Treviso (modificato solo marginalmente per adattarlo alla realtà regionale, per includere alcuni fattori mutuati dall’ISPESL e per aggravare alcuni punteggi), è stata ritenuta scientificamente corretta dal Coordinamento Tecnico Interregionale della Prevenzione nei luoghi di lavoro - in quanto coerente con l’Accordo europeo, il dettato normativo e le indicazioni della Commissione Consultiva per la valutazione dello SL-C - e inserita nella letteratura scientifica (FAQ Frequently Asked Questions - Gennaio 2012 – Stress lavoro-correlato).
 
Nel 2014, dopo un lungo lavoro di sperimentazione, accompagnato da monitoraggi e corsi di formazione rivolti ai D.S., R.S.P.P. e R.L.S. di tutte le scuole della regione, è stata realizzata una metodologia completamente originale che individua e assegna un diverso peso ai fattori di stress L-C, tiene conto di nuovi item nelle Check list e nella griglia di raccolta “eventi sentinella” (mutuati dall’ISPESL), coinvolge tutto il personale già nella prima fase della valutazione preliminare, tiene conto di eventuali discriminazioni di genere e per la prima volta in assoluto consente di pervenire agevolmente ad una valutazione di genere (rilevare separatamente per genere le eventuali carenze organizzative e di gestione).
 
Un metodo di valutazione dinamico, semplice, pratico, completo che si basa nell’utilizzo, da parte di un gruppo di valutazione (G.d.V.) nominato all’interno della scuola, di:
- questionari con domande a risposta chiusa, differenziati per tipologia di mansioni e per genere, da somministrare in forma anonima al personale e da rielaborare successivamente da parte del GdV;
- una griglia di raccolta di dati oggettivi, che raccoglie informazioni su “eventi sentinella”;
- delle Chek List che indagano le possibili sorgenti di stress legate a fattori di Contesto e Contenuto del lavoro;
- un supporto informatico messo gratuitamente a disposizione delle scuole, che consente di gestire agevolmente sia la valutazione SLC complessiva riferita alla totalità dei lavoratori che quella differenziata per sesso.
 
La metodologia, applicata autonomamente in n.137 scuole della Basilicata (87%, con il coinvolgimento di n.9300 lavoratori) e altre 100 scuole della regione Puglia, consente di  realizzare al meglio lo spirito partecipativo in tutti i processi di prevenzione e protezione messi in essere, facendo registrare un miglioramento diffuso del benessere organizzativo della scuola.
 
La "Buona Pratica", così come riconosciuta dai giudici, risponde a criteri ben definiti di  pertinenza, completezza, efficacia, originalità, rispondenza ai requisiti normativi, diversità della forza lavoro presa in considerazione, effettiva partecipazione e coinvolgimento dei lavoratori (con miglioramenti concreti e dimostrabili in termini di sicurezza e salute) e trasferibilità.


Maggiori informazioni:
E' possibile consultare il sito www.utabasilicata.it, o direttamente il link: http://goo.gl/Ke0gAj
 


Francesco Pasquale Costante - Socio SIPS Basilicata
 

Dalla comunicazione patriarcale all'autoconsapevolezza - Parte prima

Noi viviamo in un’epoca che può essere certamente vista come la civiltà tecnologicamente più avanzata in termini di comunicazione: i metodi di informazione sono molteplici e ognuno può decidere in base alle proprie preferenze. Il processo di urbanizzazione, la globalizzazione, lo sviluppo di internet, delle mail, degli sms (che si sono già trasformati e diventati WhatsApp) hanno incrementato il numero dei rapporti tra le persone appartenenti ad aree geografiche e culture sempre più distanti. Aristotele è stato il primo a dire che l’uomo è un animale sociale e questa socialità dell’uomo non può che manifestarsi nel suo costante e insaziabile bisogno di comunicare con gli altri. Ma cosa significa comunicare?
La comunicazione è una dimensione fondamentale della nostra esistenza, ma  non è una dote innata, è un’arte e come tutte le arti è qualcosa che va appreso e coltivato. La maggior parte di noi pensa di saperlo fare in modo adeguato perché possiede una buona conoscenza delle regole della propria lingua madre. In realtà la comunicazione è un'arte che richiede ben più che la semplice competenza linguistica. Richiede molti altri generi di competenze sia inerenti l’espressività sia soprattutto relative all’ascolto, all’empatia e alla consapevolezza. La parola comunicazione implica un processo complesso che si compone di due dimensioni interdipendenti: una di carattere attivo (l’espressività) e una di carattere ricettivo (l’ascolto). In letteratura E. Cheli (2008) rappresenta  questa contemporaneità tra espressività e ascolto con il simbolo taoista del T’ai Chi Tu, che descrive l’interazione dinamica tra i principi opposti e complementari dello Yin e Yang. Immaginiamo che la metà bianca sia l’espressività e la metà nera sia l’ascolto. Nella metà bianca c’è una piccola area rotonda nera ad indicare che mentre esprimiamo possiamo e dobbiamo anche ascoltare: ascoltare noi stessi e ascoltare l’altro (osservare le sue espressioni, ascoltando i suoi suoni); nella metà nera il cerchietto bianco ci ricorda invece che mentre ascoltiamo esprimiamo molti messaggi non verbali.
Nessuno ci ha mai insegnato ad impostare in modi sani e costruttivi i nostri rapporti, a comunicare con efficacia e ad esprimere in modo appropriato i nostri sentimenti. Manchiamo di una formazione  comunicativo-relazionale che ci prepari ai rapporti che incontreremo nel corso della vita. Questo analfabetismo comunicativo – relazionale – emozionale deriva dalla cultura patriarcale che ha imperato per millenni, fino a metà del XX secolo. Nel modello patriarcale non c’era democrazia, non c’era comunicazione, non c’era spazio per l’individuo e per la sua crescita personale. Tutto era diretto verso l’esterno. C’era un capo che dettava le leggi e gli altri obbedivano: chi usciva dal sistema veniva punito. La vita di relazione si svolgeva secondo regole e schemi a cui dovevano conformarsi tutti i membri della comunità. Non era importante chi eri ma cosa eri. Come il mondo esteriore era uniforme e monolitico, così anche il mondo interiori erano per lo più rigidi e tutti d’un pezzo. Soltanto alcuni tratti della personalità erano ammessi dalla comunità e dalla famiglia di appartenenza: ad esempio le donne non dovevano mostrare tratti maschili come l’intraprendenza, la forza e l’indipendenza, di contro gli uomini non potevano intenerirsi, non potevano piangere. Le persone erano poco consapevoli di sé e c’era poca o nessuna comunicazione con se stessi. La società patriarcale era una società di guerrieri: uomini che dovevano andare in guerra e dovendo combattere, non potevano avere nessuna apertura emozionale. Era un sistema in cui l’uomo lavorava e la donna doveva essere dedita alla casa. Ad oggi la realtà è profondamente cambiata. Adesso la comunità è libera di vivere come vuole le relazioni con gli altri, di scegliere con chi relazionarsi e come. Parallelamente però a questa crescente libertà è cresciuto anche il disagio esistenziale: è entrato in crisi il senso di identità individuale e sociale, è cresciuto l’individualismo e il senso di solitudine, è cresciuta l’aggressività manifesta! Abbiamo più possibilità di scelta ma non sappiamo che strada prendere perché cerchiamo sistemi di riferimento esterni, quando l’unico sistema di riferimento è dentro di noi. Continuiamo ad applicare vecchi modelli comunicativi a nuove situazioni e nuovi bisogni.
Uscire dal modello patriarcale ci rende spaesati e le persone cercano di sopperire a questa confusione cercando valori unici. Questo perché siamo ancora condizionati dal fatto che il nostro modello deve essere uno solo. E’ necessario imparare a relazionarci con valori diversi. Il conflitto nasce dall’incapacità nel comprendere e gestire le differenze, di cui l’altro è inevitabilmente portatore. E’ grazie alla diversità se esiste il nostro mondo a livello fisico, psichico e sociale. Essere diversi non vuol dire essere poli opposti- antagonisti, anzi semmai complementari!



Psicologa - psicoterapeuta
Martina Fondi - Socia SIPS Toscana
Le rubriche

Documentazione e promozione della salute
Società civile, istituzioni e benessere

Anche la società civile, e non solo gli individui, è corresponsabile del benessere dei cittadini. Silenzi, omissioni, interessi delle istituzioni possono rappresentare ostacoli pesanti e insormontabili per la ricerca del bene comune.
La costruzione di prospettive aperte al benessere richiede che le istituzioni e le parti sociali siano anzitutto consapevoli delle proprie scelte etiche e politiche e operino favorendo la partecipazione, l’empowerment, la giustizia sociale, la salute quale risorsa irrinunciabile della vita di ogni giorno.
L'esercizio dei compiti pubblici esige politiche amministrative ed ambientali lungimiranti; l'organizzazione e gestione di servizi socio-sanitari attente ai bisogni concreti delle persone e delle comunità; un mondo del lavoro, della produzione, della distribuzione e dell'informazione rispettoso delle esigenze preminenti degli individui e delle famiglie; servizi di formazione, istruzione ed educazione capaci di promuovere la convivenza e la crescita umana e culturale.
Al riguardo c'è da tener presente che l'infanzia è il periodo migliore dell'esistenza personale e della relazione sociale per acquisire le competenze intellettuali e sociali necessarie per apprendere durante tutta la vita, per combattere la trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze e delle disparità socio-economiche e culturali, per garantire anche un maggior rendimento economico.
Decisive sono, perciò, le politiche dirette ad assicurare alti tassi di scolarizzazione, l'eguaglianza di accesso all'istruzione, la garanzia di livelli elevati di qualità dell'educazione per tutti.
Altrettanto determinanti sono le misure che rientrano nella strategia dell'educazione permanente. Questi interventi vanno pensati in un contesto di elevata autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche e formative.
Strategiche sono pure le misure che facilitano alle famiglie la conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli domestici, lo sviluppo di economie sostenibili finanziariamente nel sistema di protezione sociale, l'occupazione femminile, le offerte di lavoro per tutti.
La riduzione della disoccupazione richiede misure di “flexicurity”, rivolte a garantire modalità differenziate di lavoro per tutta la vita, politiche di sicurezza attiva, l'impegno a sostenere non solo i lavoratori che operano regolarmente e stabilmente all'interno del mercato del lavoro, ma anche i marginali, gli esclusi e coloro che cercano di accedervi, con l'intento fondamentale di uscire dall'indifferenza e pacificare la comunità.

 
Bibliografia

Blondel M., L'azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Cenisello Balsamo, Paoline, 1993;
Rondinelli G., Ilva. Una strage di Stato, (la coscienza di Chicca), Milano, Magenes, 2014;
Garro M., Salerno A., Oltre il legame. Genitori e figli nei nuovi scenari familiari, Milano, Franco Angeli, 2014;
La Marca A., Competenza digitale e saggezza a scuola, Brescia, La Scuola, 2014;
Serio G., Etica e politica. Un dialogo necessario nella società disorientata e nella scuola in trasformazione, Roma, Armando, 2014;
Malizia G., Nanni C., Welfare e Educazione. Le politiche del governo Renzi: la Buona Scuola, il Jobs Act, Orientamenti Pedagogici, vol. 62, n.4, ottobre-novembre,dicembre 2015 (pp. 793-817).



di Antonio De Angeli. Socio fondatore SIPS

 
Parliamo di resilienza

La resilienza nei pazienti diabetici

Il diabete mellito può essere definito una patologia sociale alla luce dei dati di incidenza e prevalenza riferiti alla popolazione del nostro paese. «Nel 2011 sono quasi 3 milioni le persone che dichiarano di essere affette da diabete, il 4,9% della popolazione. Il diabete è più diffuso nelle classi più svantaggiate laddove i fattori di rischio, quali obesità e inattività fisica, sono più comuni. Valori superiori alla media si registrano al Sud, dove risiedono 900 mila diabetici, contro 650 mila al Nord-ovest, 600 mila al Centro, 450 mila al Nord-est e circa 350 mila nelle Isole. La diffusione (prevalenza) del diabete aumenta al crescere dell'età: oltre i 75 anni almeno una persona su cinque ne è affetta. Su 100 diabetici 80 hanno più di 65 anni e 40 più di 75. Sotto i 74 anni il diabete è più diffuso tra gli uomini.» (ISTAT 2012).
Le gravi complicanze del diabete mellito possono essere prevenute o ritardate nel tempo con un buon controllo dei valori glicemici che a sua volta rappresenta il risultato di un buon approccio terapeutico, dell’aderenza del paziente allo stesso e di comportamenti messi in atto dal paziente.
Vari studi correlano negativamente diabete e qualità della vita.
 
De Nisco (2011) con una indagine ha esplorato la relazione tra diabete e resilienza. La ricerca in generale ha indirizzato gli sforzi verso indagini atte a stabilire l’efficacia di interventi mirati al potenziamento dell’aderenza al trattamento medico, del supporto sociale e dell’autoefficacia.
Il campione studiato era costituito da donne afroamericane (Connecticut). Le minoranze etniche hanno un maggior rischio di sviluppare diabete e di andare incontro alle complicanze dovute al diabete mellito. Anche l’aspettativa di vita delle donne diabetiche afroamericane è minore rispetto alla controparte caucasica. Come è noto un buon controllo glicemico riduce fortemente il rischio di sviluppare le complicanze diabetiche. Il buon controllo glicemico può essere influenzato da numerosi fattori che comprendono una buona autogestione della malattia e la capacità di mettere in atto comportamenti adeguati al raggiungimento di specifici obiettivi.
La resilienza, fenomeno di risposta positiva o di adattamento di fronte alle avversità della vita, è stata ipotizzata come un possibile fattore influente sul controllo glicemico di questa popolazione.
Nello studio gli autori hanno correlato resilienza (valutata con la Resilience Scale di Wagnild e Young) e valori glicemici (valutati con misurazione dell’emoglobina glicosilata).
È stata trovata una correlazione negativa tra resilienza e valori glicemici (bassi livelli di resilienza comportavano maggiori livelli glicemici e viceversa).
Gli stessi autori concludono affermando che la ricerca conferma l’importanza di considerare la resilienza nella cura di popolazioni con malattie croniche quali il diabete mellito. In primo luogo esplorare i livelli di resilienza di questi soggetti potrebbe portare ad una maggiore personalizzazione dei piani terapeutici e assistenziali. In secondo luogo, interventi diretti ad incrementare i livelli personali di resilienza con effetti positivi sui pazienti.
 
La resilienza ha mostrato una correlazione negativa con i livelli di emoglobina glicosilata (Yi et al. 2008) e quindi con la glicemia (punteggi di resilienza maggiori corrispondono ad un miglior controllo glicemico) ed in particolare è emerso che la resilienza agisce come un fattore protettivo nei confronti dello stress correlato limitando gli effetti sui livelli di emoglobina glicosilata (i soggetti con alta resilienza hanno un incremento minore dell’emoglobina glicosilata in risposta allo stress).
Quindi i pazienti diabetici che hanno maggiori punteggi di resilienza hanno un miglior controllo glicemico.
La resilienza nei pazienti diabetici è quindi un fattore protettivo o salutogenico in termini glicemici, ma dati di una nostra indagine (in fase di pubblicazione) dimostrano che anche i livelli di benessere soggettivo sperimentato dai pazienti diabetici sono minori nel gruppo a bassa resilienza e viceversa.
La resilienza nei pazienti diabetici è una fattore che si correla positivamente alla salute sia come controllo degli effetti della malattia che come benessere soggettivo sperimentato dai pazienti.
Accanto ai programmi di educazione terapeutica del paziente diabetico, potrebbe essere opportuno valutare l’introduzione di programmi di promozione della salute mirati ad incrementare la resilienza valutando al contempo l’efficacia.


Bibliografia

Yi JP1, Vitaliano PP, Smith RE, Yi JC, Weinger K. The role of resilience on psychological adjustment and physical health in patients with diabetes. Br J Health Psychol. 2008 May ; 13(Pt 2): 311–325. doi:10.1348/135910707X186994.
 
DeNisco, S. (2011), Exploring the relationship between resilience and diabetes outcomes in African Americans. Journal of the American Academy of Nurse Practitioners, 23: 602–610. doi: 10.1111/j.1745-7599.2011.00648.



di Sergio Ardis. Segretario Nazionale SIPS
 

 

 


Evidenziamoli

Abstract presentati che meritano maggiore attenzione

Scuole sicure. Progetto di promozione della salute sul bullismo.

Carla Di Stefano1,2, Alberta Marino1, Adelaide Gargiuto1, Marina Sarli1, Enzo Marotta1, Tiziana Bartolini3, LorenzoCafaro3, MariaFerraresi1
1ASLRMC, 2Università - Tor Vergata - Roma, 3Polizia di Stato

carladistefano@virgilio.it


 
Il bullismo è definito come un’oppressione, psicologica o fisica, reiterata nel tempo, perpetuata da una persona o da un gruppo di persone più potenti nei confronti di un’altra persona più debole (Sharp, Smith, 1994).

In Italia le prime ricerche hanno avuto inizio nei primi anni Novanta. Oggi il bullismo è riconosciuto a livello internazionale come un fenomeno dinamico e multidimensionale, con una specifica “relazione disfunzionale” (Matricardi et al., 2005) tra coetanei, che può mettere a repentaglio il benessere psicologico e sociale dell’adolescente e produrre effetti che si protraggono nel tempo, comportando dei rischi evolutivi tanto per chi agisce le prepotenze, quanto per chi le subisce. Coloro i quali subiscono prepotenze possono manifestare sintomi da stress come incubi, attacchi d’ansia, mal di pancia, mal di stomaco e mal di testa. Un recente studio cognitivo, realizzato presso gli alunni delle scuole secondarie, descrive che alunni vittime del bullismo possono sviluppare nel tempo “una bassa concentrazione” durante le ore di lezione a scuola e problemi di apprendimento che li porta all’abbandono della scuola (Hawker, Boulton, 2000). Inoltre è emerso da recenti studi che la maggior parte delle vittime di episodi di bullismo non si confidano con i loro amici perché hanno paura di essere derisi oppure di avere ritorsioni dagli aggressori.

Anche per il bullo si prospettano conseguenze che influiscono sulla sua crescita personale, infatti da numerosi studi è emerso che coloro i quali venivano definiti bulli nella scuola primaria e secondaria, in giovane età adulta hanno vissuto almeno per una volta o per più volte l’esperienza del carcere. Lo scopo di questo progetto è quello di sviluppare un intervento multidisciplinare che affronti gli aspetti legali, relazionali, emozionali del bullismo all’interno dei gruppi classe.

Destinatari
Alunni della scuola secondaria di primo grado.

Materiali e Metodi
Nel primo intervento è stato distribuito il questionario ARA, un questionario self-report che misura lo stile di attaccamento negli adolescenti, indagando il modo in cui essi vivono i rapporti di amicizia.

Nel secondo intervento sono state presentate le diapositive inerenti al tema in studio ed alcuni video; al termine delle visioni si è sviluppato il brain-storming.

Nel terzo intervento è stato somministrato loro il questionario di gradimento e alcuni di loro hanno elaborato a loro scelta temi oppure disegni.

Risultati
Il progetto ha coinvolto un totale di circa 750 studenti; ogni classe è stata vista in tre momenti di circa due ore ciascuno e gli incontri hanno avuto cadenza quindicinale. A 245 alunni di età compresa tra gli 11 anni e i 15 anni è stato somministrato il questionario ARA e, grazie alla somministrazione di quest’ultimo, sono emersi i disagi spesso vissuti all’interno del contesto familiare e scolastico, causa di disturbi depressivi, alimentari e della personalità.

Alcuni hanno sviluppato le loro impressioni in una raccolta di temi, i quali sono stati letti durante un meeting alla presenza dei genitori.

Conclusioni
Gli studenti hanno mostrato di aver gradito l’esperienza e hanno suggerito di proseguirla nel prossimo anno scolastico con ulteriori approfondimenti, con la speranza di aver appreso strategie utilizzabili in caso di bullismo.

 
 
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I nostri sostenitori
a cura di Filomena Lo Sasso, Angela Smaldone

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