Le life skill per medici e infermieri
 L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha identificato 10 life skill per la promozione della salute: la capacità di risolvere problemi, l’abilità nel prendere le decisioni, il senso critico, la creatività, l’autoconsapevolezza, l’abilità nella gestione delle emozioni, la capacità di gestione dello stress, l’empatia, le abilità di comunicazione , la capacità di istaurare relazioni efficaci.
Di solito utilizziamo la life skills education in ambito scolastico facilitando sia nei bambini sia nei ragazzi lo sviluppo delle abilità e di quelle competenze che potranno essere utili, non solo nella fase evolutiva che stanno affrontando, ma in ogni momento della vita futura. Ma quali sono le life skill che riguardano i sanitari e che potrebbero essere utili per l’empowerment del personale medico e del personale infermieristico? Quali life skill dovrebbero avere priorità nei programmi di health promotion sviluppati negli ospedali e nei servizi sanitari? Tutte, certamente. Sicuramente lavorare con alcune life skill mirate a rafforzare autoconsapevolezza e autostima con gli adolescenti è molto più importante che non con professionisti adulti, mentre per questi ultimi altre potrebbero apparire immeditamente prioritarie.
Presumibilmente fra le abilità proposte dall’OMS, la comunicazione interpersonale è una competenza fondamentale per ogni sanitario che è destinato inesorabilmente a comunicare con pazienti in situazioni di crisi. E’ la comunicazione efficace, l’abilità con cui si costruisce una relazione sanitario paziente che consenta a quest'ultimo di ricevere aiuto nel momento complesso della malattia. E’ l’abilità del sanitario che aiuta il paziente ad acquisire consapevolezza sul proprio stato di salute per poter prendere decisioni con un alto grado di autonomia anche nelle situazioni più difficili. E’ l’abilità con cui il medico e l’infermiere possono a loro volta promuovere salute favorendo l’empowerment for health di paziente e familiari nell’ambito di una relazione efficacemente costruita.
Ingrediente fondamentale della relazione sanitario paziente è l' empatia con cui il sanitario riesce a comprendere il paziente con quel particolare stato d'animo caratterizzato dal “come se fossi io”. Abbiamo sin qui nominato tre life skill. Empatia, comunicazione efficace e abilità relazionali sono le skill che potremmo efficacemente incrementare mediante attività educative mirate ai sanitari.
La life skills education, orientata a potenziare queste tre competenze nei sanitari, è destinata ad avere un effetto molteplice. In primo luogo l'aumento delle capacità comunicative e relazionali e dell’empatia potrebbe consentire relazioni sanitario-paziente più utili per entrambi; in secondo luogo la crescita delle abilità relazionali del personale sanitario potrebbe favorire miglioramento del clima relazionale nell'ambiente di lavoro e con questo anche un miglioramento generale del benessere lavorativo. L’aumento del benessere lavorativo in un circolo virtuoso a sua volta si ripercuote positivamente e favorevolmente nella relazione sanitario paziente che diventa più gratificante per i sanitari e contribuisce ancora a migliorare la quota di benessere eudaimonico che può essere utilmente sperimentata sul luogo di lavoro. In sintesi un’efficace life skills education in questi ambiti potrebbe contribuire ad aumentare il benessere (salute) di sanitari, pazienti e familiari.
Qualcuno a questo punto potrebbe iniziare a pensare che queste skill dovrebbero essere oggetto di formazione universitaria. In parte ciò è vero, ma acquisire le non technical skill, è un processo che deve avvenire nel corso di tutta la vita e non può limitarsi all’età scolastica o universitaria.
Cosa impedisce oggi di promuovere le life skill nei sanitari?
- la mancanza di motivazione nei sanitari. Sebbene si enfatizzi il ruolo della comunicazione in sanità, questa viene ritenuta ancora un’abilità innata, che non necessita di essere acquisita e migliorata come avviene invece per le competenze tecniche.
- la mancanza di progetti di promozione della salute organicamente pensati e sostenuti nei sistemi sanitari regionali e nelle organizzazioni sanitarie territoriali;
- lo scarso peso assunto da questi aspetti nella valutazione di performance delle strutture sanitarie, di chi le amministra e dei sanitari stessi;
- la tendenza a mettere in atto interventi “spot” e non lavorare organicamente e “a sistema” sui temi del benessere.
La life skills education per sanitari può partire da queste tre skill. L’approccio educativo non è naturalmente sovrapponibile a quello utilizzato con i ragazzi che lavorano sugli stessi argomenti, ma trova certamente alcuni punti in comune. Accanto alla formazione teorica (frontale o FAD) è necessario l’utilizzo di tecniche quali il role-play. Lo studio su libri di comunicazione orientati alla comunicazione sanitario paziente deve accompagnarsi al circle time con i colleghi per confrontarsi su quanto accade nel proprio contesto di lavoro.
Molti considerano la life skills education qualcosa di utile solo per i ragazzi e non tengono conto che già la Carta di Ottawa considera la promozione della salute un processo per tutta la vità.
Sergio Ardis - Segretario Nazionale SIPS
L’Amore
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 In un’epoca caratterizzata da sesso facile, promiscuità e rapporti superficiali, qual è lo spazio per l’amore? In un’epoca in cui le sorti di una relazione sono affidate agli smartphone, che cos’è l’amore? L’amore è una figura complessa, affascinante e travolgente.
L’amore è sempre un viaggio avventuroso. Ci sono esploratori, che attraversano valli e scalano montagne, solcano mari e percorrono fiumi, alla progressiva scoperta di quell’arricchimento e di quell’evoluzione psicologica che ha origine dall’abitare quella terra ignota che è la relazione d’amore. Un’avventura fatta di coraggio tra “le discese ardite e le risalite su nel cielo aperto”, così come cantava Battisti, in cui si assiste all’incontro tra due unicità che danno luogo a un rapporto irripetibile e straordinario. Ma se è vero che tutti noi cerchiamo l’Amore della vita, è altrettanto vero che a volte vivere una relazione affettiva può spaventare molto.
Molte volte succede, che quando l’amore è disponibile, siamo noi a sabotare il rapporto. Per quanto proclamiamo il nostro bisogno di essere amati abbiamo difficoltà a lasciarlo entrare, così accade che spesso provochiamo un conflitto tale da giustificare la nostra paura e la nostra chiusura. Temiamo che, la turbolenza che questo sentimento porta con sé, possa sconvolgere l’ordinario svolgersi delle cose. Abbiamo paura di essere feriti e rifiutati. Come di fronte alla forza di una tempesta chiudiamo la porta, abbassiamo le tapparelle e aspettiamo che l’impeto arrivi e passi, così di fronte all’amore costruiamo muri e ci barrichiamo in casa nella speranza di essere risparmiati dall’irruenza della sua forza. L’importante è non esporsi. Così capita che in questo viaggio verso l’ignoto, ci siano esploratori che, per paura di lasciare la riva, non intraprendono mai la navigazione e non mettono mai piede nella terra dell’amore
Ma l’amore non è solo turbolenza e bufera. Manca la visione della sua complessità. L’interesse e l’apertura verso l’altro implicano sempre la possibilità di scoprire nuove vie di accesso alla nostra anima e chi cerca di fuggire da questo sentimento in realtà è in fuga da se stesso.
Nella letteratura scientifica si legge che la donna cerca un compagno in cui intravede l’immagine del padre e viceversa l’uomo cerca nella propria partner l’impronta caratteriale della madre. Ora, se da un lato è vero che le esperienze emozionali infantili con le figure accudenti entrano a far parte dei nostri ricordi inconsci e costituiscono il nucleo della nostra capacità di autoregolarci e della natura delle nostre relazioni adulte, è altrettanto vero che nessun rapporto sarà mai uguale ad un altro, nessuna relazione sarà mai sovrapponibile ad un altra. In ogni rapporto affettivo c’è sempre un margine di differenziazione, ed è in questa discrepanza che si situa la nostra possibilità di crescere. Non ci innamoriamo di chiunque ma di chi in qualche modo è simile a noi e contemporaneamente è anche portatore di una certa quota di diversità, per darci ciò di cui siamo mancanti e consentirci così di cambiare. Siamo sempre interiormente spinti verso ciò di cui siamo carenti. In termini junghiani si potrebbe dire che la diversità dell’altro rappresenta la nostra parte mancante, la parte in Ombra della nostra personalità.
Ci innamoriamo quando siamo insoddisfatti, quando ci sentiamo soli, quando sentiamo bruciare dentro di noi il desiderio di una felicità che è tanto che non proviamo e quando siamo pronti al cambiamento. Se siamo in pace con noi stessi e se sentiamo di essere appagati di quello che abbiamo, non ci mettiamo in gioco aprendoci ad una persona. E proprio perché l’amore è rivoluzione e rischio, nessuno fa una rivoluzione se è appagato di ciò che possiede.
L’innamoramento è una dimensione evolutiva delirante in cui l’altro ci appare senza limiti e difetti. Siamo al di fuori del principio di realtà. L’altro è innalzato al ruolo di divinità, e come in uno specchio, nella sua divinità vediamo riflessa la nostra essenza divina. Quando siamo innamorati davvero ce ne accorgiamo dal fatto che la nostra vita diventa più facile, più leggera, facciamo cose che prima non facevamo, scopriamo talenti che non sapevamo di avere. Scopriamo la nostra luce interiore. Il vero innamoramento, contrariamente a quanto si pensa non avviene in un istante. L’innamoramento è un processo, è una scoperta che non dura una settima o un mese ma anni e anni.
Da un certo punto di vista l’amore costituisce un vero e proprio lavoro psicologico perché attiva una nuova possibilità di conoscenza del mondo. Potenzia il nostro Io, lo accresce! Ma dare origine ad una relazione autentica non è mai facile e i legami sentimentali non possiedono gli strumenti per rimanere vivi da soli. I rapporti richiedono tempo, riconoscimento e comprensione reciproca, rispetto, dialogo e responsabilità. Questi sono alcuni fattori che portano una relazione a durare e crescere nel tempo, nella consapevolezza che ...se ami qualcuno non lo ami tutto il tempo, sempre nello stesso modo, momento per momento. Non è possibile, e non bisogna pretenderlo...eppure e quello che molti di noi esigono...siamo fissi sulla durata e sulla continuità possibile… scrive Anne Morrow Lindbegh. La stessa natura è ciclica. Nulla rimane lo stesso. Noi stessi non siamo un’entità fissa ma una corrente dinamica di esperienza. Assumersi la responsabilità della relazione significa sentirsi soggetti attivi, coscienti che un rapporto non è qualcosa di statico ma che si costruisce strada facendo. Credo che Amare un’altra persona sia uno dei compiti più difficili per un essere umano.
Uno degli errori che tendiamo a commettere nelle relazioni è lamentarci e pretendere. Focalizziamo l’attenzione su quello che nel rapporto pensiamo che manchi e non vediamo quello che di positivo e buono c’è! Affidiamo alla persona che amiamo il delirante compito di tappare i nostri “vuoti”, le nostre ferite infantili, ma per quanto l’amore dell’altro possa essere grande non sarà mai sufficiente, non sarà mai abbastanza. Ed in genere quando l’altro sente che noi abbiamo delle aspettative eccessive verso di lui, tende a ritrarsi perché sa che non sarà possibile soddisfare i nostri bisogni. Nessuno potrà mai amarci abbastanza da renderci felici se non amiamo davvero noi stessi. E se dentro di noi non ci sentiamo amati, come possiamo amare veramente? Come possiamo dare a qualcun altro quello che non riusciamo a dare neppure a noi stessi?
Gli amori non sono mai giusti o sbagliati, gli amori sono propedeutici. Sono momenti evolutivi, porte che si aprono verso nuove possibilità. Nulla è mai stato inutile. Un rapporto che finisce ci permette di capire cosa vogliamo e cosa non accettiamo, ci insegna che non siamo “carne da macello”, che siamo degni di valore e che meritiamo di più. Un cammino alla ricerca di senso in cui incontriamo e scopriamo noi stessi all’interno di un doloroso processo destrutturante alla fine del quale non si è più quelli di prima. In questo processo di conoscenza di noi stessi, il perdono costituisce un importante fattore evolutivo. Tuttavia, molto spesso abbiamo paura di perdonare perché pensiamo che questo comporti il pareggio dei conti, la cancellazione dell’offesa subita e l’ammissione di una qualche responsabilità nell’accaduto. Il perdono è un processo elevato: non significa dimenticare e condonare il male fatto, ma comprendere il significato profondo delle reazioni dell’altro e farsi carico delle proprie responsabilità per poter lasciare andare ciò che è stato e poter guardare al futuro con serenità ed apertura. Spesso le persone che non riescono a perdonare sono quelle che non sono mai state perdonate e per questo non hanno appreso il linguaggio del perdono. Vivono l’offesa ricevuta come un attacco all’amore di sé e non vedono la strada del perdono come la via verso la libertà!
Il coraggio di aprirsi all’altro è il coraggio di vivere la vita e la morte, dove la morte ci insegna che c’è un limite: la fine di una storia segna solo l’ora di riprendere il proprio cammino, passo dopo passo, lì dove ci eravamo fermati, senza più paura di morire un’altra volta. Perché, come si legge nel “Piccolo Principe”, ci sarà sempre un’altra opportunità, un altro amore, una nuova forza. Per ogni fine c’è sempre un nuovo inizio.
Martina Fondi, Psicologa, Delegazione SIPS Toscana
Dalle tradizioni popolari alle multinazionali
Terza parte. Continua dalla newsletter precedente (per leggere le parti precedenti entra nell'archivio della newsletter)
Un’altra importante pianta medicinale , che arrivò in Europa nel 1600 grazie ai missionari gesuiti del Sud America, fu la corteccia dell’albero della china (Cinchona spp.), che era stata usata per secoli dal popolo Quechua peruviano per sopportare meglio i brividi di freddo. I Quechua riducevano la corteccia in polvere per poi diluirla nel vino. Un giovane gesuita, Agostino Salumbrino, che lavorava come farmacista a Lima, ipotizzò che questo intruglio poteva anche essere utile nel trattamento delle febbri causate dalla malaria e così inviò alcuni campioni di corteccia di china a Roma, dove in quel periodo la malaria era molto diffusa. Sorprendentemente, l’intuizione si rivelò corretta e, nel 1632, la corteccia di china fu usata per trattare il primo caso di malaria. La notizia si diffuse ben presto, così come anche il suo uso profilattico contro la malaria, flagello che si pensava inestirpabile, soprattutto nelle aree paludose. Quando le nazioni europee cominciarono a stabilire colonie in Africa, Asia e Sud America, la domanda di china aumentò. Tuttavia , fu solo nel 1820 che due scienziati francesi, Pierre Pelletier e Joseph Caventou, estrassero il principio attivo e dimostrarono definitivamente che questo era in grado di uccidere alcuni stadi dell’agente eziologico della malaria (il protozoo Plasmodium spp). A questo prodotto chimico fu dato il nome di “chinino”, derivante dal nome peruviano per “corteccia”, appunto “quina-quina”. L’ uso del chinino cambiò radicalmente il corso della storia: i colonialisti potettero spingersi ulteriormente nelle regioni malariche precedentemente invalicabili dell’Africa tropicale e dell’Asia. A causa delle emergenti resistenze contro alcuni farmaci di sintesi, il chinino è stato recentemente rivalutato per combattere alcuni dei casi più gravi di malaria . Oggi, l’unico altro farmaco che rivaleggia con la sua efficacia è l’artemisinina, che è a sua volta derivata da un’altra pianta (Artemisia annua), l’assenzio dolce . Per molti secoli, questo potente farmaco era noto nella medicina cinese con il nome di “qinghaosu”, ma è stato riscoperto nel mondo occidentale solo nel 1970. Da allora, le cortecce di altri alberi sono state studiate per cercare altri composti aventi funzioni medicinali.
Originariamente utilizzato da Egizi, Greci e nativi americani per la sua capacità di alleviare il dolore, il salice era stato adocchiato dagli erboristi che, già dal 1700, cercavano di estrarre e purificare i potenti composti antidolorifici della sua corteccia. Nel 1758, un sacerdote inglese di nome Edward Stone stava masticando un ramoscello di salice quando il suo gusto amaro lo colpì e lo riportò con il pensiero al gusto della corteccia dell’albero di china. Supponendo che potessero contenere sostanze chimiche simili, Stone prese alcuni ramoscelli di salice, li seccò, li ridusse in polvere e cominciò a sperimentare gli effetti su alcuni parrocchiani-cavie affetti da febbre reumatoide. Stone scoprì che la corteccia di salice aveva sia un effetto antinfiammatorio che uno effetto analgesico. I suoi risultati furono successivamente pubblicati sulla rivista Philosophical Transactions nel 1763. Sulla base di questi risultati, circa 60 anni più tardi, nel 1828, un professore di farmacia dell’Università di Monaco di Baviera, Johann Buchner (da cui il nome del comune attrezzo di laboratorio utilizzato per effettuare filtrazioni sottovuoto) riuscì ad estrarre dalla corteccia del salice pochi grammi di cristalli puri di colore giallo e diede al composto il nome di “salicina”, dal latino “Salix”, il genere di piante a cui appartiene appunto il salice. Nel 1829, un chimico francese di nome Henri Leroux aveva ulteriormente migliorato la procedura di estrazione per produrre fino a 25 grammi di salicina da 1 chilogrammo di corteccia e, subito dopo, un chimico italiano, Raffaele Piria, che lavorava a Parigi, mise a punto un metodo per purificare una sostanza ancora più efficace, l’acido salicilico. L’ uso di acido salicilico per il trattamento di dolori e febbri si dimostrato di essere altamente efficace, anche se dosi eccessive causano irritazione alla mucosa dello stomaco. Alcuni scienziati tedeschi decisero allora di aggiungere gruppi acetile all’acido salicilico per ridurre questo doloroso effetto collaterale. Infine, nel 1897, una società farmaceutica tedesca (la Bayer) iniziò a produrre acido acetilsalicilico di sintesi. La corteccia del salice non serviva più come materiale di partenza: era nata l’aspirina, oggi uno dei farmaci più usati al mondo non solo come antidolorifico ma anche contro malattie di vasta portata come ictus, diabete, tumori, demenza e attacchi di cuore, con l’incredibile quantità di 40.000 tonnellate consumate a livello globale ogni anno.
di Adriano Sofo, Ricercatore Universitario, Delegazione SIPS Basilicata
Documentazione e promozione della salute
La resilienza
 Il termine “resilienza” designa un costrutto psicologico culturale la cui comprensione aiuta a esplicitare alcuni aspetti indispensabili per cogliere il significato personale e sociale della promozione della salute.
Di per sé il termine resilienza fa riferimento al complesso di fattori che definiscono la capacità di una persona di riuscire a vivere e a svilupparsi positivamente, in modo socialmente accettabile, nonostante la presenza di fattori di stress o di circostanze ambientali avverse che prospettano un forte rischio di esito negativo.
In questo caso sta anzitutto a designare quel processo variegato che consente ad un essere umano di fronteggiare con la propria cultura le avversità della vita presenti nell’ambiente di appartenenza, uscendone rafforzato, più temprato, pieno di nuove risorse.
L’etimologia del termine resilienza deriva dal latino resalio, cioè saltare, rimbalzare. In fisica il termine è stato utilizzato per connotare i materiali capaci di resistere agli urti improvvisi e di sopportare, senza spezzarsi e senza riportare incrinature, gli sforzi applicati bruscamente. L’opposto di resilienza è, quindi, fragilità.
Il linguaggio informatico adopera il termine resilienza per significare la capacità di un sistema operativo di resistere all’usura e/o di continuare a funzionare a dispetto di possibili anomalie costitutive.
L’ecologia e la biologia utilizzano tale vocabolo per indicare la capacità di un organismo di auto-ripararsi dopo un danno oppure di rilevare il grado di adattamento delle specie animali alla mutevolezza dell’ecosistema.
Nelle scienze umane alcuni ricercatori usano il termine resilienza per esprimere la capacità della persona di reagire ai colpi del destino, di resistere allo stress, di superare positivamente circostanze avverse.
Altri intendono con esso la capacità della persona di riuscire a realizzare un buon adattamento, di opporsi alle pressioni ambientali per andare avanti e ricostruire un percorso di vita.
In questa prospettiva il termine resilienza introduce nella promozione della salute l’attenzione non tanto all’interazione tra persona e ambiente, quanto ai valori della cultura di cui la persona è portatrice (etica condivisa socialmente, senso di appartenenza, accoglienza, empatia, cura collettiva, solidarietà, giustizia, uguaglianza).
Bibliografia:
Walsh F. La resilienza familiare, Milano, Raffaello Cortina, 2008;
Cyrulnik B., Malaguti E., Costruire la resilienza, Trento, Erickson, 2005;
Malaguti E., Educarsi alla resilienza. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorare, Trento Erickson, 2005;
Seligman M.E.P., Imparare l’ottimismo, Firenze, Giunti, 2005
Oliverio Ferrarsi A., La forza d’animo. Cos’è e come possiamo insegnarla ai nostri figli, Milano, Rizzoli, 2003.
di Antonio De Angeli Socio fondatore SIPS
Evidenziamoli
Abstract presentati che meritano maggiore attenzione
Falling in Love
Elena Pierozzi, Stefania Polvani, Mattia Confalone, Irene Archidiacono
ll progetto Falling in Love si definisce come la naturale continuazione dell'esperienza di realizzazione del progetto vincitore del concorso regionale “Ditestamia” sulle idee dei giovani per la salute, edizione anno 2009, nel liceo scientifico Agnoletti di Sesto F.No nell'anno scolastico 2011/12 .
Il progetto, che è risultato vincitore per l'area tematica “Amore e Sessualità”, è nato dall'idea di Mattia Confalone e Irene Archidiacono, allora studenti delle Scuole Secondarie di secondo grado, che hanno in esso espresso l'esigenza dei ragazzi di sentirsi bene con se stessi e lo hanno mirato a diffondere una maggiore cultura della responsabilità nell'ambito dell'affettività e della sessualità.
L'adolescenza è una fascia di età caratterizzata da numerosi e consistenti mutamenti, sia a livello fisico che psicologico-emotivo, possono nascere disagi che possono influire sul benessere psicofisico dei ragazzi. L'autostima, la gestione dello stress e la gestione delle emozioni sono state individuate come quelle skills che possono migliorare le capacità dei ragazzi di affrontare più attrezzati una vita relazionale, affettiva e sessuale. Le tematiche trattate nel progetto sono: l'orientamento sessuale, gli stereotipi, la contraccezione, le abituali fonti di conoscenze, il corpo che cambia.
Destinatari: 1 scuola superiore del territorio dell'Azienda Sanitaria di Firenze: gruppo di peer delle quarte e quinte, tutte le prime.
Le Azioni previste dal progetto sono:
Un incontro di condivisione con gli insegnanti referenti; un incontro di start-up con i genitori delle classi coinvolte; 3 incontri di formazione dei peer con esperti; laboratori di autostima nelle classi prime; un incontro di peer education nelle classi alla presenza dei tutor (ad esempio: lavori multimediali, lavori artistici, ricerche varie su internet sui temi: il corpo che cambia,l'orientamento sessuale, Ie fonti di conoscenze, la contraccezione, gli stereotipi); produzione di un elaborato finale da utilizzare per l'incontro di peer education nelle classi prime. Giornata finale dove ogni classe riporta il proprio lavoro con i genitori e con gli operatori dei servizi (EAS-Centri Consulenza Giovani).
Metodologia: educativa: peer education e life skills.
Obiettivi Generali: Aumentare la conoscenza sui temi dell'affettività e sessualità, migliorare l'autostima.
Obiettivi Specifici: confronto con adulti esperti e i pari sui temi della sessualità, conoscenza delle fonti accreditate dell'informazione sui temi della sessualità, apprendimento di life skills.
Conclusioni: l'introduzione dei peer, cioè ragazzi di poco più grandi, affiancati da esperti, per la veicolazione delle informazioni, produce un effetto di maggiore attenzione e coinvolgimento degli interessati ai contenuti e alle proposte.
Presentato al Meeting "Promozione della salute e diritti umani" - Pisa 19 aprile 2013
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